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“Con la musica del mare” di Antonio Giordano


Premio Vitulivaria 2017 – IV edizione

Con la musica del mare

Antonio Giordano

I Premio Sezione Narrativa

 

Ho sognato Chantal stanotte. Quand’ero più giovane mi succedeva di sognare cose completamente diverse da quelle che mi erano successe il giorno prima. Ma, da qualche tempo, la notte allarga i pensieri del giorno, dando loro una dimensione che li conferma poi nel ricordo.

Mentre aspetto che arrivi il mio turno ripenso ancora a Chantal. La donna in camice è bruna e ha forme piene. Chantal non era né bruna né piena, eppure l’ho amata lo stesso.

Stanotte mi portava a un concerto. Sonavano la terza di Schumann, la “Renana”.  Mentre la musica ci fasciava, mi carezzava i capelli. Scendevamo per una scala ed eravamo a mare felici.

Dopo tanti anni ho rivisto Chantal in sogno, liberamente, e ci siamo amati. Allora non si è spento in me quell’amore per lei che credevo che il tempo avesse diluito e disperso. Me ne è rimasta una componente, una scintilla che nel sogno mi ha procurato l’ebbrezza di amare.

Comincio a pensare che non sono coloro che abbiamo amato che restano in noi ma è l’amore che assume poi forme e esistenze di questi esseri. Finché sarò capace di amare avrò dentro Chantal, forma di questo sentimento che, sennò, resterebbe un’esigenza vaga e indefinita.

Il castello sorgeva a strapiombo sul mare a testimoniare assalti moreschi, vigili e febbrili difese contro gli invasori. Ora, vecchio e malandato, era stato adibito a ostello della gioventù.

Lerici, con i suoi vialetti verdi lambiti dal mare, con le sue barche e il suo sole. Avevo diciotto anni e mi sentivo libero come una farfalla uscita dalla crisalide.

Mady, la “mamma albergatrice”, era una vecchia grinzosa, magra, simpatica e misteriosissima. Si era riservata un appartamentino nella parte più alta del castello dove abitava in mezzo a strani trofei, credo africani o esotici, e ai ricordi che i ragazzi passati di là le inviavano.

“Da dove vieni?”, mi chiese rimestando nella pentola dove cuoceva il minestrone.

“Dalla Sicilia”, risposi piuttosto intimidito.

Mi guardò, smise di rimescolare e si piantò con le mani nei fianchi, reggendo il mestolo.

“Ce l’hai la ragazza?”.

Mi vergognai.

“Veramente no”.

Mi scrutò severa con la sua faccia di cartapesta.

“Dimmi, Turiddu, vorresti averla?”.

Deglutii.

“Beh, certo”.

“Un siciliano senza ragazza è sprecato, no?”.

“In effetti, … già”, balbettai confuso.

“Non cercare scuse. Se non sai procurartela, ci penserò io. Sennò che mamma sarei?”.

Si mise a ridere e mi diede un colpo di mestolo sulle gambe.

“Quando ti chiamo corri, va bene Turiddu?”.

“Va bene signora”.

“Mady”, mi corresse.

“Va bene, Mady. Io mi chiamo Carlo”.

“Preferisco Turiddu”, tagliò corto.

Il mare era calmo e trasparente. È triste, però, fare il bagno da soli. A mare è bello scherzare, rincorrersi; quando si è in compagnia il bagno elettrizza e infonde energia.

Mady, affacciata alla finestra, mi chiamava: “Turiddu, vieni presto!”.

Ero appena uscito dal mare e stavo per avviarmi alla doccia. Corsi un po’ goffamente sui piedi nudi e fui presto nel suo stanzone misterioso.

“Questa è Chantal. Trattamela bene perché è una brava ragazza. E non lasciarla sola. È belga ma parla benissimo in italiano”.

I grandi occhi verdi mi fissavano, circondati da un visetto minuscolo. Aveva i capelli castani, era piccola di statura ma molto ben fatta. La guardai anch’io e le sorrisi, tremante ancora di freddo.

“Aiutala a sistemare i bagagli e falle la corte. Che razza di Turiddu sei?” Chantal mi tese una mano. Mezz’ora dopo ero di nuovo in acqua con lei. Finalmente potevo ridere, muovermi, giocare. Facemmo la doccia e ci distendemmo al sole. E così ogni giorno. Tante volte al giorno.

C’era in Chantal qualcosa, non so, che commoveva. Il vedere il suo corpo, delicato e solido a un tempo, steso ai raggi del sole, mi dava una specie di groppo alla gola.

Quando aprì gli occhi e si accorse del mio sguardo si mise a ridere, mi posò una mano sul braccio con aria sbarazzina e mi disse nella sua lingua:

Pourquoi tu me contemples? Tu me fais sentir précieuse”.

Mi venne allora naturale, istintivo, sfiorarle le labbra con un bacio; così, senza pensare.

Chantal non disse nulla ma si accorse anche lei che c’era qualcosa che cominciava ad avvicinarci: diventò seria e mi carezzò i capelli ancora umidi.

Aveva l’odore del mare. Fu un ritrovarsi. Come se ci aspettassimo da sempre. Una voce lontana, persa nel mare, cantava i misteri del nostro amore

Sì; per la prima volta nella mia vita amai. Chantal, il cielo che si vedeva dalla bifora, la luna, il mare, erano tutte amore. Carezze, abbracci, sussulti, ombre sui muri, sciacquio delle onde, quella voce lontana, erano un nucleo unico, un mondo inscindibile. Ero felice.

“Che faremo, Chantal?”.

“Non ci lasceremo, Turiddu. Io verrò con te e tu con me”:

“E i tuoi studi, i miei, le nostre famiglie?”:

“Siamo pazzi, ti prego. Abbracciami, Turiddu; non voglio aver paura di essere felice”:

Avevamo fatto il bagno e ora, distesi al sole, tacevamo. Mi sembrava che gli scogli portassero in trionfo il corpo di Chantal.

“Devo tornare, Turiddu. Mi son finiti i soldi e lunedì devo ricominciare a frequentare il corso. Ci vedremo presto, promettimelo”.

Mi si aprì nel cuore come un baratro e volli svenire senza riuscirci. Per chi avrei avuto un corpo, un cervello, un sentimento, senza di lei?

“Verrò a Liegi fra un mese. Troverò i soldi, vedrai”.

“Teniamoci stretti, Turiddu mio”.

Ci amammo là, sugli scogli facendoci una disperata promessa.

Turiddu, amore mio, hai mantenuto la promessa!”. Quando la vidi aprire la porta e correre verso di me fu come se tutte le campane di Liegi sonassero a stormo nella mia testa.   

Maman, c’est mon ami Turiddu. Il logera chez nous. Tu veux?”.

La mamma di Chantal mi squadrò da capo a piedi, poi mi tese la mano.

Cucinava molto bene e si sforzava di piacermi. Trovava che ero un italiano speciale, educato cioè. Per lei gli italiani, figuriamoci i siciliani, erano stati fino a quel momento mafiosi attaccabrighe.

C’est une chanson qui nous rassemble …”, cantava Chantal mentre mi riassettava la stanza, benché le avessi detto che potevo farlo io. Era una canzone di Yves Montand molto nota allora, anche in Italia

E le vent du nord les emporte dans la nuit froide vers l’oubli …”  È la voce di Chantal, ancora, che si libra fra me e l’ordigno e che ci impedisce ogni possibile comunicazione.

Tu vois je n’ai pas oublié la chanson que tu me chantais”, le rispondevo.

“Facciamo tutto quello che si può fare nella vita, ora. Concentriamolo in questi momenti, Chantal. Ho il presentimento che non durerà. Andiamo, partiamo, corriamo l’uno verso l’altra ma la vita finirà per metterci i ceppi in luoghi diversi e un giorno ci chiameremo senza sentirci”.

 “Les feuilles mortes se ramassent à la pelle, les souvenirs et les regrets aussi …”

Mi rendo conto che la mia vita è finita.

Sto solo, adesso, sulla spiaggia, ad ascoltare le onde meste che carezzano la riva al suono di un pianoforte languido.

Infreddolito, nudo, con il volto bagnato di lacrime e d’acqua. Chantal è là, nel mare. Avanza, torna indietro con le onde grigie; un oboe mi invoca.

I nostri abbracci sono adesso un ricordo sconsolato che il mare fa riaffiorare e sommerge lentamente con arpeggi di tasti mentre l’archetto sembra un rimprovero sofferente.

Chantal, vorrei tenderti le braccia, far sorridere il tuo visino, ma non posso. Ho le braccia troppo pesanti; non riesco a staccarle dal mio corpo biancastro e infreddolito. E tu vai, vieni, sulla linea di un orizzonte incolore: due occhi grandi, sbarrati, il volto piccolo, bagnato dalla tristezza di un mare senza sole. È la musica che mi tiene fermo a piangere inutilmente incollato sulla spiaggia, è questo violoncello che mi fascia di languore impotente o è la paura, invece? Una codardia appiccicosa che mi blocca in una culla malsana?

Sento che è la mia ultima occasione, ma la volontà si scioglie con le lacrime e vedo i tuoi occhi, la tua bocca, sempre più lontani e il vischio di questo violoncello lega per sempre le mie braccia.

Addio, Chantal. Non ho neanche la forza di gridartelo, intorpidito da questa accoratezza inutile.

Uno stacco, una pausa. Chantal non c’è più, non ci sarà mai più. L’ho tradita anche adesso. E lei, ch’era tornata, percorrendo con i suoi occhi tutto quel mare, tutti quegli anni. Per me.

Ora il mare s’alza verso il cielo e l’acqua diventa un muro mentre da una fenditura esce un coltello di fiamme che mi trafigge. Il dolore mi arriva fino al cuore…

T’ho tradita per l’ultima volta, la terza, Chantal: “Prima che il gallo canti mi tradirai tre volte”.

 “Turiddu, vieni! Ti ho preparato una sorpresa”.

“Aspetta, Chantal, non mi tirare così, sto facendo il bucato e ho le mani tutte bagnate”.

“Ma va’. Corri, lascia perdere”.

Lasciamo il grande spiazzo del castello, folgorato dal sole e dall’azzurro e ci facciamo inghiottire, ridendo, da una scalinata buia e fresca. Scendiamo chissà quanto.

Ora siamo nel salone dove ci amiamo. Dalla bifora entra un chiarore indeciso.

“È questa la sorpresa?”.

“L’amore è sempre sorpresa, Turiddu”.

La luna percorre la bifora.

“L’ho fatta venire per te”, mi dice accarezzandomi la nuca.

La sua pelle è fresca e al buio trovo le sue labbra, i suoi occhi, il suo calore e mi stendo su di lei con il cuore e i sensi gonfi.

Come sei dolce Chantal! Quando sto per emettere l’ultimo grido d’amore, sono interrotto da un vocione brusco. Il sole si oscura, sento un dolore forte all’addome. Ho la gola asciutta.

Giù, ancora giù … Mi debbo far forza, devo aprire gli occhi …

“Tutto bene. Adesso pensi a guarire”. Attorno a noi la sala si illumina improvvisamente di torce, lampioncini. Centinaia di medici in càmice verde ci circondano, incombono sghignazzando, agitando bacchette sulle cui cime ondeggiano lampioncini multicolori, facce grottesche e baffute.

Siamo scoperti e così, nudi e impudichi, siamo posseduti e immobilizzati da una vergogna cocente…Ho aperto gli occhi. Finalmente! Il viso di mia moglie:

“Ce l’hai fatta, Carlo”.

  No, non ce la farò forse mai.

I ricordi, le sensazioni di una giovinezza perduta, l’incanto del primo amore, nato e gestito al suono del mare, di strumenti musicali, di canzoni datate, costituiscono lo sfondo, il leit motive di una rinascita: è il risveglio maturo in un letto d’ospedale. Ma la lucida, recente realtà non farà mai svanire le emozioni di giorni ormai lontani. La narrazione procede fluida e consequenziale senza intoppi fino alla soluzione finale.

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Antonio Giordano, nato a Palermo l’11/05/1937 – Medaglia d’Oro per la Scuola, per la Cultura e per l’Arte, conferita dal Presidente della Repubblica (DPR 16/2/99) – Figura nota nel mondo della cultura, oltre ad essere stato Preside in parecchi e prestigiosi licei, ha curato la didattica del teatro e ha riscosso centinaia di premi e riconoscimenti. Ha scritto numerosi romanzi, ottenendo risultati prestigiosi per “Puro Spirito”, “Anche noi facemmo la guerra”, “O Paradiso”, “Il Grande Sipario” e in ultimo “Io Faust”, vincitore assoluto del Premio “Città di Rimini” 2013. Ha insegnato Drammaturgia presso l’Università EU di Palermo. Raccolte poetiche pubblicate sono anche “Occhi nella notte” 1978 – “Benedetti sonetti” 2010 – “Dove il sì suona” 2014 – “Ballarò canta” 2015.

 

 

“Il tempo di morire” di Santo Marsigliante


Vi racconto un mio ricordo di quando ero osservatore distratto di vite altrui.

Senza esitazione mi invitò nella sua casa alla fine di una miserabile strada. Mi presentai scortato da un nome vinto al lotto. Il suo piccolo bambino era in piedi sulla porta del bagno. Appena seduto cominciai a mormorare rosari di domande, percorrendo l’intera lunghezza della sua esistenza. Realizzai prontamente che mai avrei potuto credere a nemmeno una parola della sua storia; ma non aspettò neanche un momento per spiegarmi ogni cosa digrignando buffamente i denti. Chi, nel mezzo della sua vita, ora mi chiedo, le aveva mai dato un amore trasparente? Non lo so e non so come avesse tutta quella esperienza di me.

Lei alla fine si alzò e barattai un mazzo di rose con il suo più cortese sorriso; mi lasciai catturare dalle sue labbra piene di perle e mi sentii trasportare come la prima volta. Abbandonai la mia vecchia ideea che la voleva ancora bambina e di nuovo sedemmo sul pavimento intorno ad una lampada a cherosene e un vinile suonò vecchie canzoni con un’armonica. Mi sembrò più di qualche volta che tutto era passato senza crudeltà, senza colpe e peccati che potessero giustificare una morte.

“Buona giornata, il sabato”

disse, apparentemente assorta.

“Guardandoci di sbieco abbiamo vissuto in mondi diversi ma intersecanti”.

Mi disse di nuovo dei petali che cadono sul tavolo, delle gardenie da innaffiare, dei capelli bianchi da pettinare e della vita vissuta male. Continuai a ostinarmi nel non parlare. Mise un’altro vinile sul piatto démodé, uno dei suoi favoriti: “Il tempo di morire”.

“Sai, io lo ho conosciuto Battisti … ma non aveva origini italiane, lo sai? Io adoro Battisti vecchia maniera, caro. Se solo tu avessi avuto la voglia di aspettarmi, caro, se solo tu mi avessi sopportato, sardonico e distante, mi avresti toccato anche restandomi lontano”.

Stanotte, adesso, si’

Mi basta il tempo di morire

Fra le tue braccia cosi’

Domani puoi dimenticare, domani…

Ma adesso dimmi di si’

Lentamente il sipario si chiude e ti nasconde ma non riesco a decidere se applaudire o fischiare. Come osservatore distratto mi sento visibilmente deluso, come chi si aspetta qualcosa di diverso e si sorprende a pensare che il tempo non rimargina ferite. Solo le cose che non hanno avuto importanza non ne hanno ancora e mai ne avranno. Solo le ferite superficiali sono rivestite di nuova pelle indistinguibile da quella vecchia. Il tempo passa, la bellezza sfiorisce ma i sentimenti rimangono gli stessi e quelli veri vengono rafforzati. Io non mi sento toccato dalle sue parole, a quest’ora della notte avrei preferito maggiore frivolezza, come quando le dissi

“Ti ricordo vestita di sole con il vento tra i capelli”

… e giù a ridere a crepapelle. Ma alla fine forse hai ragione tu, è ora di andare a dormire. Poi, quando veramente pareva che mai più dovesse parlare, sembrò scuotersi da un lungo sonno e si portò al naso il bicchiere di vino; dopo averlo annusato finalmente bevve e parlò poche parole, tutte in una secca frase. Gli riaccesi lo stereo con la sua musica preferita, ancora un altro sorso, un far finta di raccogliere le idee ed un breve sospiro.

Prendi tutto quel che ho

Mi basta il tempo di morire

Fra le tue braccia cosi’

Domani puoi dimenticare, domani

Ma adesso, adesso dimmi di si…

Quanto avrei voluto capirti prima, ma poi cosa sarebbe cambiato per me che ho cose da buttare via? Sarebbe cambiato tanto poco se tu non fossi qui, se tu mai avessi parlato, se quel bicchiere non fosse tra noi, le nostre presunte attenzioni e la malcelata noia. Avevo deciso di parlarti senza trucchi nè inganni ma ti muovesti maldestramente ed il tuo gomito mandò in frantumi il bicchiere e la mia buona volontà. E così in nome della nostra falsa modestia ti prego di mantenere il silenzio ancora per pochi minuti perché mi sento già le palpebre pesanti …

This is the end

Beautiful friend

This is the end

Smettemmo di respirare un minuto più tardi.
Santo Marsigliante

Secondo  Premio Sezione C

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ph Eleonora Mello

Con uno stile essenziale e con un ritmo che ben rende il pensiero, l’autore tratteggia l’incontro con una donna, un amore della sua giovinezza, che appartiene ormai ad un tempo perduto. Ineluttabile cala il sipario tra le note di un caro motivo familiare di Battisti. Non sempre il tempo rimargina le ferite. Il silenzio ra è l’unica voce che può lenire il rimpianto di ciò che non può più essere… Non rsta che la voglia di dormire. Non resta che un tempo per morire. [ A. Teni]

Santo Marsigliante è professore di Fisiologia presso la Facoltà di Scienze MM FF NN dell’Università del Salento. Attualmente insegna nel corso di laurea in Biotecnologie Mediche e in quello in Ottica e Optometria.Studia i meccanismi della comunicazione cellulare, i fondamenti generali dell´endocrinologia e gli eventi trasduzionali in risposta alla somministrazione di chemioterapici platinati. Scrive occasionalmente poesie e si è aggiudicato il Premio Speciale “Associazione VIva Mente” nell’edizione di Vitulivaria 2013.


 

“Schegge” di Tonia Madaro


Quella prigione dell’anima era uno stato del suo inconscio che non voleva proprio accettare.

Era lì a guardare quel cielo stellato e a ripetersi che quella era la vita che lui aveva voluto, quello in cui aveva creduto, desiderato e finalmente realizzato, ma non era così e il suo Sé più profondo da qualche tempo spingeva e spingeva.

Poi finalmente un ricordo, la luce bianca e accecante della neve in una splendida giornata di sole, il vociare allegro dei compagni, la gioia infinita.

Era venuta giù inaspettatamente e il direttore della scuola aveva concesso il permesso di uscire nell’atrio a giocare, con quello che tutti noi ritenevamo una magia.

La neve era un evento a dir poco strabiliante per un paesino del sud dell’Italia, nel Salento, un paese talmente piccolo che non si trovava nelle cartine geografiche, più un villaggio che altro.

Ricordava l’affanno, dopo i primi cinque minuti passati a giocare a palle di neve, con le mani tremanti e gelide perché aveva tolto i guanti, voleva toccare quel manto soffice e candido. L’aveva odorato, assaggiato, avrebbe voluto metterlo in tasca e conservarlo per quando non ci sarebbe stato più. Le sue guance e quelle dei compagni sembravano frutti maturi, mele turgide e rosse, ciliege al posto del naso e il sangue scalpitante scorreva nelle vene, lo percepiva come non mai. Sbuffi bianchi uscivano dalle loro bocche calde, erano trenini a vapore impazziti che si rincorrevano, negli occhi un’accecante euforia. Tutto questo si era impresso nella sua memoria e poi con un atto di volontà era stato sepolto, volutamente dimenticato, perché un ricordo talmente bello poteva far male, poteva essere d’ostacolo nel raggiungimento degli obiettivi della sua vita. Aveva deciso di vivere in un altro posto del mondo, Londra, così lontana, così diversa, ma dove la neve era una condizione meteorologica naturale, scontata.

 Lì si sentiva al centro del mondo, lì era divenuto il manager di successo da lui desiderato. Lì la luce assumeva un altro colore, un altro senso, un altro valore. Le ombre erano meno contrastanti e quel grigiore freddo e piatto era quasi rassicurante.

Ma quella sera, quella sera, il cielo era limpido e stellato e lui nel guardarlo attraverso la grande vetrata del suo lussuoso appartamento, dall’attico di un palazzo prestigioso, si sentiva avvolto da una sensazione irreale. Era come se stesse galleggiando in una bolla di sapone e schegge di ricordi si alternavano alla realtà, guardava la vita attraverso il filtro della memoria, stava scivolando pian piano in un mondo surreale. Non aveva paura, anzi, quella sensazione di spiacevole oppressione che avvertiva da qualche tempo stava scomparendo per lasciar spazio a una strana euforia.

Uscì nella bolla attraverso il vetro e guardando dall’alto il mondo percorse a ritroso la sua vita. Quante cose aveva vissuto, ma quante altre aveva perso. Certo non poteva dirsi sfortunato, no, ma forse la sua solitudine, condizione per la quale aveva lottato rincorrendo un’idea di libertà, ora non gli sembrava poi così bella, così libera, quella padronanza della sua vita che sembrava avesse conquistato, ora gli appariva falsa, vuota, traditrice. Non sapeva più cosa fosse la felicità. Aveva tutto ma non aveva niente. Comprese come la vita scivoli via in un attimo quando rincorri qualcosa, comprese che nulla poteva essere meglio di una carezza, un abbraccio, un bacio affettuoso dato da una persona sincera. Comprese che aveva perduto il suo tempo e ora in quella bolla si sentiva in trappola. Così cominciò a premere su quelle pareti, con le mani e i piedi, con tutta la forza che aveva, voleva romperla, uscire da lì e al diavolo se fosse caduto.

Il tempo sembrava essersi annullato.

Poi un rumore, qualcuno bussava alla sua porta.

– Tesoro, la cena è pronta. Hai finito i compiti?

Sua madre entrò nella cameretta, si avvicinò allo scrittoio al quale era seduto, davanti alla finestra con l’affaccio al giardino, lo guardò e amorevolmente gli carezzò il capo.

– Dai, non essere triste. La neve si è sciolta, è vero è durata poco, ma guarda, guarda che bel cielo stellato. Domattina sarà una meravigliosa giornata.

Si chinò a baciarlo sulla fronte, poi andò via richiudendo la porta alle sue spalle.

Lui rimase lì ancora per qualche attimo, immobile, a fissare il cielo.

No, non aveva immaginato, qualcosa gli era arrivato dall’Universo, un dono, la possibilità di compiere un viaggio nel tempo. Staccarsi dalla realtà presente, andare nel futuro, per poter ricordare il passato. Una chance, ma questo ancora lui non lo sapeva, troppo piccolo per comprendere una cosa così grande.

Andò a cenare e tutto si svolse come sempre.

Ebbe altre esperienze come quella e un giorno si decise a parlarne.

In famiglia ascoltarono la sua storia poi sorrisero e gli dissero che aveva una grande immaginazione, i compagni invece risero di lui schernendolo col nomignolo, “ il matto”. I bambini a volte sanno essere davvero crudeli. Poi cominciò a ridere delle sue storie anche lui, prendendo in giro tutti perché aveva raccontato loro dei sogni, lui stesso si convinse che era stato tutto un sogno. L’idea di essere diverso lo spaventava, il giudizio della gente lo spaventava, quel giudizio dato spesso con troppa superficialità e che ti fa sentire strano, allontanato, solo, escluso dal branco.

Tutto trascorse nella più normale totalità. Crebbe e non fece più viaggi nel tempo.

La sua attenzione fu tutta per il raggiungimento della sua carriera futura, doveva studiare e fare di tutto per essere l’orgoglio della sua famiglia. Anche i suoi amici erano presi da una strana affannosa corsa al successo economico e professionale.

La vita cominciò a scorrere velocemente.

Così, arrivò finalmente il grande giorno. Partì ed ebbe tutto quello che la società gli aveva fatto vedere come un ambito traguardo e una sera davanti alla vetrata del suo appartamento mentre guardava spruzzi di stelle in un cielo inaspettatamente limpido, come un boomerang fu investito da tutti i suoi ricordi, assaporò l’amarezza del non aver accettato, non aver accolto quel dono, la tristezza di non aver lottato per difendere la sua diversità.
Tonia Madaro

Finalista Sezione C
VIII classificato
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Tonia Madaro, nata a Lecce dove risiede, è sempre stata animata dalla passione per l’arte e la scrittura. Frequenta il Laboratorio di scrittura creativa a  cura di Studio Rollo di Lecce.
Al termine del percorso è stato pubblicato un libro che raccoglie gli scritti dei partecipanti dal titolo: “Non trovo le parole”.


 

“Camera a Sud” di Anna Serena Gatto


Camera a sud

Così sono tornato nel mio Salento. Mi chiedo se posso ancora chiamare mia una terra da cui ho deciso di fuggire tanti anni fa in cerca di una nuova vita, di un futuro che mi sembrava impossibile trovare qui, soffocato nelle stradine bianche di calce del mio piccolo paese, che dormivano sotto il sole implacabile delle nostre lunghe estati. Ho scelto di andar via, strappandomi dal cuore le mille sfumature di azzurro del nostro mare, i riflessi d’argento degli ulivi, i ricami di pietra delle chiese. Ho voluto dimenticare il suono dolce del dialetto, la lentezza sonnolenta del nostro vivere, tutti i colori, gli odori, i sapori del mio Sud antico e magico. E, dopo essere riuscito faticosamente a costruirmi una vita in una grande città di un altro continente, così diversa, così lontana da quello che era stato il mio piccolo mondo, non ho voluto più tornare indietro. Non ce n’è motivo, mi sono sempre detto. Niente più mi lega a quei luoghi, niente per cui valga la pena provare nostalgia. Ho scelto una vita senza amore, senza dolore e senza felicità in una terra sconosciuta. Mi è sembrata l’unica alternativa possibile, tutto qui.
Fino a stamattina. Svegliandomi, ho ricordato un sogno che ho fattostanotte. Ero sulla spiaggia dove ho trascorso tutte le estati fino all’adolescenza. Nel sogno mi dicevo che doveva essere settembre inoltrato, perché era immensa e solitaria sotto un sole che aveva già la dolcezza dell’autunno. Il mare aveva “un riso azzurro, un brivido di seta” come in una poesia di cui non ricordavo il titolo né l’autore, ma solo questo verso che ritornava, quasi ossessivo, nella mia mente, insieme al respiro lieve delle onde.
E insieme a questa immagine, un’ansia improvvisa di tornare indietro, nello spazio ma soprattutto nel tempo, che mi ha fatto svegliare con il cuore che mi batteva forte e un tremito simile a febbre in tutto il corpo.
Mi sono alzato con un’urgenza davvero inspiegabile per una persona metodica e razionale come me, ho sistemato in fretta i miei impegni di lavoro, ho preso il primo aereo e ora sono qui.
Dato che siamo ormai alla fine di ottobre, non mi è stato difficile prendere in affitto una vecchia, piccola casa affacciata sui bastioni a strapiombo sulla scogliera. È scura e spoglia, odora di salsedine, ha le pareti incrostate di umidità; ma ha un minuscolo balcone proteso sull’immensità abbagliante del mare, e questo panorama che avevo voluto dimenticare mi comunica una sensazione di pace e di dolcezza mai provata in nessuna delle lussuose stanze degli alberghi che sono abituato a frequentare nei miei viaggi di lavoro.
Per la prima volta, dopo tanti anni, trascorro una giornata senza impegni né programmi, felice di smarrirmi nei vicoli contorti del piccolo paese, dove il tempo sembra essersi fermato. E, senza che me ne renda conto, i miei passi mi portano proprio sulla spiaggia del mio sogno. E’ così piccola rispetto a come la ricordavo, ma il colore dorato della sabbia e l’azzurro tenero e struggente del mare sono sempre gli stessi. Mentre resto immobile sulla riva, chiedendomi cosa ci faccio qui, il pomeriggio assolato sfuma in un tramonto color arancio e poi in un dolce crepuscolo blu, punteggiato dalle prime stelle della sera. Quando il cielo diventa nero e le stelle si moltiplicano, da un tempo remoto della mia vita precedente, tornano a risuonare nella mia mente i versi di una poesia di Neruda:“Fuori le punte del cielo scintillavano come pietre magnetiche/e l’odore della legna mi toccava il cuore/con dita come di gelsomino, come di alcuni ricordi”.
E d’un tratto risento proprio quell’odore, di vecchio legno impregnato di salmastro, l’odore di una barchetta di pescatori tirata in secco su quella spiaggia, in una notte d’estate di troppi anni fa.
Lontano, un gruppo di ragazzi intorno a un falò canta una canzone stonata, mentre uno di loro strimpella una chitarra.
Ma io non li ascolto e non li vedo, come non vedo le stelle né il mare, che pure offrono uno spettacolo magnifico. Vedo solo lei,seduta accanto a me sulla sabbia, con la schiena appoggiata alla vecchia barca, che mi sorride con la sua incantevole grazia, inconsapevole della tempesta che si agita dentro di me, mentre leggiamo insieme un libro di poesie che amiamo, alla luce di una torcia elettrica. E’ così vicina che potrei sfiorarla, ma non ho il coraggio di farlo, nonostante sia la mia più cara amica d’infanzia. La complicità che ci legava da bambini, quando ci tuffavamo insieme dagli scogli e tentavamo scherzosamente di spingerci sott’acqua (lei era molto più forte di me, spericolata e libera come un maschiaccio), ha improvvisamente ceduto il posto a uno strano imbarazzo. Marta ha tredici anni, lunghi capelli neri, un viso abbronzato da bimba in cui splendono i suoi occhi verdi, limpidi e ridenti. Io ho diciassette anni e, nonostante l’aria spavalda che ostento con i miei amici, accanto a lei mi sento tremare il cuore: tutte le meravigliose e poetiche frasi che vorrei rivolgerle naufragano in mille discorsi banali. Mentre raccolgo tutte le mie energie per riuscire almeno a sfiorarle i capelli, all’improvviso diventa seria e stringe la mia mano protesa verso di lei.
“È l’ultima estate che trascorro qui, Marco”. Il mio cuore si ferma ed è come se una voragine si fosse aperta nella sabbia per inghiottirmi. Lei continua, con un sorriso triste: “I miei genitori hanno deciso di trasferirsi in Australia, dove i miei parenti hanno già trovato loro una casa e un lavoro. Partiamo domattina … non te l’ho detto finora per non rovinare questi ultimi giorni insieme. Volevo dirti che mi mancherai, ecco”. “A … anche tu” riesco appena a balbettare con voce soffocata, sfuggendo il suo sguardo, perché non si accorga che ho gli occhi lucidi. Ora, devo dirglielo ora che la amo o non sarà mai più possibile.
E invece mi alzo in piedi di scatto, lasciando cadere il libro sulla sabbia; mormoro qualcosa riguardo all’orario di rientro a casa e la lascio lì, correndo via senza voltarmi. Non l’ho più rivista. Mi riscuoto da questo viaggio nella memoria e mi accorgo solo ora che sono le tre del mattino e fa freddo. Ritorno lentamente nella casetta e so già che non dormirò, quindi mi avvolgo in una coperta e resto sul balconcino a fissare il mare. Ora mi sembra di comprendere il perché della vita che ho scelto, senza amore, senza dolore né felicità. E mi domando a cosa sia servito tornare indietro. Immagino come si sarebbe svolta la scena che ho appena ricordato se solo non avessi avuto paura della forza di quel sentimento, se l’avessi presa tra le braccia dicendole ciò che provavo per lei. Mi sento ridicolo e patetico, un signore di mezza età che si commuove per qualcosa che non ha vissuto e non potrà mai più essere. Scuoto la testa come per scacciare definitivamente i fantasmi dei ragazzi che eravamo e decido che domani ripartirò. Stavolta non tornerò davvero mai più indietro.
Ora è mattino e il sole splende, come se fosse piena estate, nella stradina dove si trova la piccola casa in cui ho trascorso questa strana giornata fuori dal tempo e dal mondo. Attendo il taxi che mi porterà all’aeroporto.
Cerco di non lasciarmi commuovere dai colori vividi che mi circondano – il bianco lucente delle case, l’azzurro del mare, oggi più scuro sotto il vento di maestrale, il verde della pineta in lontananza – e provo a concentrarmi, senza riuscirci, sugli impegni che mi attendono al mio rientro al lavoro. Nella mia mente, però, risuonano i versi della poesia di Pablo Neruda che ha messo in moto la mia personale “macchina del tempo”, durante la notte appena trascorsa. Vedo una piccola libreria poco lontano e mi viene in mente che potrei cercare il libro che la contiene. Esitante, ancora incerto se assecondare questo strano impulso, spingo la porticina dipinta di azzurro ed entro.
Tra gli scaffali alti fino al soffitto e traboccanti di libri, scorgo un bancone di vecchio legno e mi sembra di avvertire ancora quell’odore, che mi dà una leggera vertigine. Dietro il bancone, una donna solleva lo sguardo dal libro che sta leggendo per posarlo su di me. Sul suo viso abbronzato, il tempo e chissà quale dolore lontano hanno inciso tante piccole rughe, senza riuscire a cancellarne la bellezza. Ma gli occhi sono sempre gli stessi: verdi, limpidi e ridenti. Sorridendo, Marta mi chiede: “E’ un turista? Non ne vediamo molti in questo periodo”. Non mi ha riconosciuto. Cercando di dominare il tremito nella mia voce, rispondo: “Sì, una breve vacanza, ma sto per ripartire. Avrebbe le Odi elementari di Neruda?” Mentre lei prende il libro dallo scaffale, io cerco disperatamente le parole per rivelarle chi sono ed esprimere finalmente tutto ciò che tengo rinchiuso nel cuore da troppi anni. Sento, però, la sua voce, indifferente ed estranea: “Lo sa che erano le mie poesie preferite, quando ero una ragazzina? A volte mi chiedo perché, visto che ora non mi dicono più nulla…” Non solo non mi riconosce, ma non ricorda affatto le nostre estati né quella notte. Tutto ciò che finora mi ha impedito di avere una vera vita per lei non è neppure una memoria lontana. Un sorriso sprezzante affiora sulle mie labbra mentre rispondo: “Sì, a pensarci bene ha proprio ragione…la vita è qualcosa di molto diverso dalle poesie, non crede? La ringrazio, ho cambiato idea.” Guardo l’orologio. “Mi scusi, il mio taxi sarà già fuori ad attendermi. Buona giornata”.
Fuori, il vento è diventato più forte e una nuvola ha coperto il sole. Il paesaggio mi appare improvvisamente grigio e triste. Nonostante tutto, provo uno strano sollievo, una specie di leggerezza sconosciuta, mentre cammino incontro ai miei nuovi giorni, senza più nostalgia né rimpianti.
Anna Serena Gatto

 Finalista Sezione C
VI classificato

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 Il racconto presenta descrizioni di profonda intensità, che rivelano un’anima emotivamente legata ai luoghi in cui si dipanano i ricordi. Lo stile è scorrevole e ammalia il lettore, in un crescendo introspettivo che attraverso il ricordo mette in luce il groviglio dei sentimenti dell’autore. La nostalgia e l’anelito al futuro caratterizzano una catarsi che nell’epilogo trova il ‘perché’ lasciando in chi legge una delicato senso di tristezza intriso di speranza. [M.R.Teni]

Anna Serena Gatto, vive a Lecce, insegna diritto ed economia politica  presso l’I.T.C. di Galatina. Ha coltivato la passione per la scrittura fin dall’infanzia ed è autrice di numerose poesie e racconti. Il desiderio di “mettersi in gioco”, partecipando per la prima volta a un concorso è nato grazie all’esperienza del Laboratorio di scrittura creativa che attualmente frequenta presso lo studio Rollo di Lecce