Barcarolle di Cristiana Ioghà


Premio Vitulivaria 2017 – IV edizione

Barcarolle
Cristiana Ioghà
II Premio
Sezione Narrativa

Sul davanzale della finestra della stanza da letto, la nonna aveva posto un vaso di gerani. È tipica l’unicità di quel colore dei bei fiori ornamentali che, annusandoli, non sanno di niente, anzi, odorano di terra e di sale… sì, perché dietro a quel vaso di fiori, e dietro ancora, alla fine della strada tutta curve, e oltre i muri delle ville cosparsi di buganvillea, e oltre ancora la grande strada statale che costeggia la ferrovia, Iris poteva scorgere un pezzettino di striscia blu: il mare.

Iris si sentiva prigioniera in quella casa così grande, ma non era quella, la sua vera prigione, e neanche il carcere, quello vero, era stato tale: adesso, dentro di lei, la bambina urlava e strepitava disperata e chiedendo di oltrepassare quelle mura che le radici paterne avevano eretto per proteggerla.

Può sembrare che Iris pensasse al periodo della detenzione come da dimenticare, ma non era per niente così. Dopo tanto pensare, la donna indossò stivali e cappotto, prese l’immancabile, logoro zaino, uscì e chiuse la porta, lasciando dietro di sé la scia dell’odore acre e pungente del geranio rosso.

Iris camminava con passo svelto: era la sua naturale andatura, percorreva quei tornanti con la sicurezza di chi sa muoversi con agilità, con la scaltrezza che deriva dalla paura che ha un bambino di essere scoperto a fare qualche marachella, guardandosi ogni tanto indietro, per quella strada semideserta, verso il mare. Era un pomeriggio invernale e la striscia blu si faceva sempre più ampia, variegava i suoi toni in mille, fredde sfumature e si animava attraverso la miriade delle increspature portate dal mormorio del vento. E scendeva correndo, perché quei colori, sempre più profondi e il movimento sempre più incalzante delle acque, l’attiravano come una calamita;

ad ogni passo che l’avvicinava alla spiaggia, a ogni sguardo che posava sulle acque.

Sapeva che stava facendo una cosa strana, uscire con quel freddo, ma c’era un motivo che la spingeva verso il mare, come la luna che provoca la marea, sentiva il sale del mare che lava il dolore e porta via la paura.

Belle nuit, ô nuit d’amour

Souris à nos ivresses

Nuit plus douce que le jour

Ô,belle nuit d’amour!

Le temps fuit et sans retour

Emporte nos tendresses

Valerio era tutta la sua vita, era bello, brillante, pieno di premure. Vivevano insieme da tre mesi, era sempre pieno di soldi, tanti soldi. Aveva una bella rendita proveniente dall’eredità del nonno materno, il quale, in vita possedeva diverse proprietà immobiliari, ma aveva sempre una strana voglia di andare, di lasciare l’Italia.

Un brutto pomeriggio, si era ritrovata con due agenti di polizia che l’aspettavano al portone di casa con un mandato di perquisizione. Ne uscivano con dei pacchetti grandi quanto scatole di scarpe e Iris ammanettata. Così lei scoprì solo la sera stessa, e nel peggiore dei modi, che gli “affitti” che Valerio incassava, altro non erano che le alte percentuali derivate dal commercio di cocaina.

Valerio era sparito nel nulla, inghiottito insieme ai suoi palazzi, in una notte gelida di febbraio,

Ora, dentro una cella, Iris aveva preso sonno. Era in una pasticceria con la sua mamma a mangiare strani dolci al cioccolato, quando all’improvviso una fitta al ventre la svegliava di soprassalto e il sapore allettante di quelle paste ora si era fatto nauseabondo e si mescolava a quello acre e amaro delle tante sigarette fumate nella serata precedente.

Insieme al sapore, l’odore di sporco e di marcio del sangue: tanto sangue che scendeva dalle cosce, fino alle ginocchia. Iris emise un urlo di dolore, quasi disumano, riversando a terra.

Quando aprì gli occhi, una poliziotta le prendeva la mano e dietro di lei una collega: “Purtroppo il bambino lo hai perso”. Iris si concentrò attentamente per un secondo, immediatamente dopo mostrò uno sguardo mesto tra il contrito e il rassegnato, poi voltò il capo per nascondere l’espressione alle due donne che, lanciandosi uno sguardo d’intesa, uscirono dalla stanza. Iris, ora da sola, voltò di nuovo il capo, fissando il soffitto: non sapeva nemmeno del bambino, non immaginava, “potrei anche morire, adesso, così; non soffro e sarebbe perfetto”. Allora rise, poi si abbandonò al sonno artificiale degli antidolorifici.

 Poi la bellezza della musica. E di Isabella.

Isabella era una musicista. Per via di un brutto incidente automobilistico, aveva dovuto rinunciare a qualsiasi aspirazione di carriera. Si dedicava all’insegnamento ed entrata a far parte di un’associazione di volontariato, aveva aderito con entusiasmo a un progetto di animazione teatrale e corale presso l’istituto di pena, dove Iris scontava la colpa di qualcun altro.

Le giornate, da quando c’era Isa, non erano più le stesse, Iris si era appassionata al canto, aveva imparato che la sua voce non era fatta solo per parlare, per gridare, ma poteva creare alchimie sconosciute e affascinanti. Di aria, che prima sentiva le mancasse, ora ne aveva in abbondanza: essa riempiva i suoi polmoni, spingeva giù il diaframma e, trattenuta per una frazione di secondo, fuoriusciva emettendo fiori profumati e gemme preziose, come nella fiaba di Andersen. Grazie a Isa, la sua vita era di nuovo un turbinio di colori. Iris non si sentiva così da quando la mamma la portava alle giostre, il carosello che girava e girava la faceva sentire lieve e gaia, come una farfalla: libera di volare.

Grazie all’esperienza del coro, Iris aveva capito che la sua voce poteva comunicare qualcosa di diverso dalla rabbia; così aveva tentato di riallacciare il rapporto con il padre, ma lui non si era fatto vivo, nonostante l’invito.

“Si vergognerà di me”, pensava Iris

Poi venne il momento del commiato. Iris non poteva credere che quella quotidianità si sarebbe interrotta per sempre. Si appartarono nei locali, dove si riunivano per le prove e si strinsero in un abbraccio: le prese si facevano più forti, quasi soffocavano, poi, si fissarono a lungo e si abbandonarono a un bacio profondo intenso, come se le due bocche, annaspando, esplorandosi disperate, cercassero di dissetare una sete che durava da mesi, esattamente da quando si erano viste la prima volta.

E si cercavano e si baciavano ancora e ancora…

Si scrissero per un po’ di tempo, poi, dopo due mesi, nulla più.

Finalmente, dopo un anno arrivava la libertà, e il giorno che usciva dal carcere, fuori, ad aspettarla trovò il padre.  Le tendeva le braccia, quell’uomo stanco e smagrito e Iris si lanciò, ormai imbelle, verso colui che l’aveva generata e che amava. “Ho solo te” pensava e si strinsero in silenzio.

Iris era tornata nella casa paterna e lavorava a stretto fianco del padre nella sua azienda. Era rimasta però in contatto con la direttrice e le amiche del carcere. Aveva saputo che Isa aveva lasciato l’accademia e aveva deciso di seguire il marito.

I ricordi si scioglievano nell’ultima spirale di fumo di una sigaretta che non finiva mai e che lasciava dissolvere le volute biancastre, nel grigio plumbeo delle acque: stava facendo sera.

 Le temps fuit sans retour
Zéphyrs embrasés
Versez-nous vos caresses

 Non poteva fare a meno di sentire quelle onde marine che la scavavano dentro, scandivano il tempo con il loro ritmo e aumentavano e diminuivano l’intensità.

che cresceva con il crescere del vento e si calmava con il suo quietarsi e lei sentiva ancora quel seno contro il suo fino a comprimerle il petto e toglierle il respiro, quel respiro che lei stessa le aveva insegnato a comandare. Una volta, dopo aver ascoltato il duetto “Barcarolle”, aveva chiesto a Isa se un giorno l’avrebbero provata insieme, e ora ripensava all’ebbrezza di quel canto, alle due voci che s’intrecciano come due corpi e il pensiero la eccitava, provocando in lei imbarazzo e vergogna. Isa dove sei? Mi manchi, la musica che c’era in te era la più bella che avessi mai sentito, mi hai insegnato a essere libera. Perché sei voluta entrare tu, in una prigione? Volevi provare quello che ho passato io? Forse l’amore per te era lasciarmi andare perché non subissi la vergogna del giudizio della gente? hai voluto prendere la croce e adesso cosa faccio della mia libertà, Isa?

Il vento si era fatto più forte.

Iris…Iris… Una voce affannata la chiamava dalla strada, Iris era già arrivata a riva, gli stivali bagnati, le onde castane dei capelli, intrise di salsedine, tanto, tanto freddo… era una voce di donna, la voce di Isa! Iris era come paralizzata, non aveva il coraggio di voltarsi, lo stomaco era arrivato in gola e il cuore batteva forte, troppo, i colpi facevano rumore e superavano il ritmo incalzante delle onde con un tempo impazzito ancor di più. Stava oscurando e le onde avanzavano sempre più, nel loro flusso.

All’improvviso si sentiva cingere la vita e Isa la voltava a sé, le prendeva il volto tra le mani e la baciava.

 Era crollata qualsiasi barriera, le porte della prigione sfondate per sempre.

I fiori sono fatti così, maschio e femmina in un unico corpo. L’amore è una parola unica, vuole dare, non avere, e non guarda chi sei, e quando lo trovi, l’amore, non puoi farlo fuggire.

I tuoi gerani rossi guardano il mondo fuori, Iris, e tu sorridi, per la prima volta tra le sue braccia, ammirando, sconfinato, profondo, e meravigliosamente blu, il mare.

Il racconto di riconoscersi finalmente per quello che si è, senza infingimenti, senza maschere, senza ambiguità. E la meta è spesso costellata di ardui sentieri, di prigioni, immaginarie o reali. Ma finalmente la musica, il mare, l’abbraccio di un familiare a lungo desiato possono fare il miracolo e portare all’accettazione del proprio vissuto e delle proprie aspettative.

                                                        ph Eleonora Mello