“Con la coda dell’occhio” di Gabriele Andreani


Premio Vitulivaria 2017 – IV edizione

Con la coda dell’occhio
Gabriele Andreani
Premio speciale Giuria
Sezione Narrativa a tema

Accadde nel 1992, alla fine di agosto, un mercoledì, a casa di un malato con un tumore al cervello in fase terminale, mentre stavo lasciando cadere le sacche nutrizionali color latte sopra un mobiletto all’entrata, l’ascensore si era già rimesso in moto, e la padrona di casa in tutta fretta stava richiudendo alle mie spalle la porta rimasta aperta.

Fu esattamente in quella frazione di secondo che potei afferrare con la coda dell’occhio il capolavoro, l’opera d’arte, il meraviglioso quadro che nessuna collezione privata, pinacoteca, galleria o museo al mondo avrebbe avuto mai il privilegio di ospitare e occhio umano contemplare.

Io avevo avuto quel privilegio. Per un tempo infinitamente breve, ma lo avevo avuto. La padrona di casa a un certo punto fece un movimento che mi fece girare di scatto dall’altra parte e l’immagine sparì dalla mia visuale.

Più tardi, a casa, non pensai ad altro. L’opera d’arte, maestosa e sbalorditiva, che avevo afferrato con lo sguardo in casa di quello sventurato si era impadronita di me, della stanza, delle stanze della mia anima. Mai prima d’ora avevo provato un’emozione simile. Mai fino a quel momento mi ero sentito così felice, così diverso dall’uomo che pensavo di essere fino a un momento prima. Dunque, l’amore non era solo una chimera, l’illusione di un poeta romantico, la gemma che sfiorisce al primo rovescio di pioggia, l’inganno di un momento di passione travolgente. L’amore, l’amore con la a maiuscola esisteva!

Avrei voluto gridare al mondo la mia eccitazione, il mio stordimento, la mia ammirazione per quell’opera umana d’incomparabile bellezza, ma mi sentivo impotente e senza voce. Sperai, pregai, confidai di poter coglierne un piccolissimo frammento anche il giorno dopo, quando sarei dovuto tornare di nuovo in quella casa.

A quel tempo ero studente al DAMS di Bologna. Mi piacevano il disegno a mano libera e le stampe che ritraggono oggetti comuni e banali, che i cultori e gli appassionati di fotografia chiamano still life, natura morta. Non avendo l’obbligo della frequenza giornaliera, mi mettevo ogni giorno a disposizione dei malati di cancro in fase terminale seguiti dall’Associazione della quale facevo parte; quando non avevano bisogno di me, quando non avevo nient’altro da fare, quando mi sentivo ispirato e non avevo la luna di traverso, aprivo i miei libri, disegnavo nature morte e bozzetti di figure umane dai tratti mostruosi, sfogliavo riviste d’arte moderna e giornaletti pornografici. Dalle otto di sera alle due o le tre del giorno dopo, mi pagavo gli studi servendo birre alla spina e panini farciti ad automobilisti di passaggio in un bar che si trovava dall’altra parte della città.

Non avevo stima di me stesso, non avevo fiducia nel prossimo, nulla mi toccava il cuore, nulla mi commuoveva o esaltava. L’affetto, l’amore con la a maiuscola, la riconoscenza, la forza dei sentimenti non erano per me che parole vuote.

Di mio padre e mia madre conservavo uno sbiadito ricordo. Le cose tra loro andavano male e non si sono mai aggiustate. Vivevano come separati in casa e di me se ne fregavano.

Mio padre non conosceva la differenza tra un figlio e un estraneo. Quando era sobrio (succedeva raramente), quando non era in collera con mia madre (succedeva ancor più raramente), quando si ricordava di avere un figlio, si sedeva di traverso su una sedia, mi squadrava da capo a piedi, mi vomitava addosso frasi senza capo né coda e poi, senza darmi il tempo di parlare, di esprimere un’opinione o di dire al limite una cretinata, una qualunque, andava in soggiorno e si metteva a russare profondamente sul divano. Usciva da casa la mattina presto e rientrava quasi sempre a notte fonda. Cenava in silenzio, guardava un po’ la televisione e si metteva a letto. Una cosa positiva però ce l’aveva, mio padre: non mi ha mai messo le mani addosso. Aveva trentacinque anni quando gli fu diagnosticato il cancro alla gola che se lo portò via nel giro di poche settimane.

Mia madre se la intendeva un po’ con tutti: con un tale che si diceva spacciasse anfetamine davanti alle scuole, con un ex sergente buttato fuori dall’aeronautica, con un poliziotto della narcotici prossimo alla pensione, con un tizio che gestiva da qualche parte una bisca clandestina. Mi lasciava sempre solo in casa, non s’interessava di come andassi a scuola, mi guardava sempre con aria sospettosa, mi ripeteva fino all’ossessione che io ero un mancato aborto.

 A trentadue anni se la portò via uno scassafamiglie che si diceva in giro fosse nel giro grosso della prostituzione. Chi aveva messo in giro quella voce non si sbagliava: un tale di nome Paca, un grande puttaniere, una volta mi disse che in uno squallido monolocale si era appena fatto mia madre con ventimila lire.

Rimasto solo, fui affidato a zia Crocifissa, un donnone pieno di acciacchi e di risentimenti che, com’è vero che respiro, era mille volte peggio della strega di Hansel e Gretel. Eravamo sedici, anzi, diciassette in casa sua: oltre a noi due, c’erano quelli che zia Crocifissa chiamava i miei cari bambini: Valerio, Paride, Belva, Palloncino, Alice, Rosa e Flora, tutti cani di piccola taglia con le rotelle fuori posto; i gattoni un po’ stronzetti Bea, Emma, Donato, Natale e Pompeo e un paio di pappagalli verdi con due faretti spenti al posto degli occhi. Per mia zia, invece, io ero semplicemente un figlio di puttana, il figlio di quella puttana di mia sorella. Se non avesse avuto timore di perdere il sussidio mensile che i servizi sociali le passavano per il mio mantenimento, mi avrebbe volentieri cucinato e dato in pasto ai suoi cari bambini.

Ero poco più di un adolescente quando un inquilino del nostro palazzo, stimato e benvoluto da tutto il vicinato, sposato e padre di due figlie in età da marito, che un paio di volte la settimana veniva a fare le iniezioni intramuscolari alla zia, un giorno entrò di soppiatto in camera mia, chiuse a chiave la porta e, dopo avermi tappato la bocca con una mano, con l’altra si mise a trafficare per un minuto o due dentro le mie mutande.

A diciannove anni, mentre mi stavo recando al bar in cui lavoravo, sorpresi la mia prima ragazza entrare in un motel sulla tangenziale con un tizio pieno di soldi che conoscevo di vista. Non mi ci volle molto scoprire che aveva delle storie con uomini che le facevano dei regalini. Eppure mi aveva giurato eterno amore.

Disprezzavo l’amore, disprezzavo me stesso, disprezzavo tutti e tutto. Di mettermi con un’altra non ci pensavo proprio, di sposarmi e diventare padre ancora meno. Follie. Aspiravo a diventare un uomo alla mercé del caso. Punto.

L’amore, l’affetto, la tenerezza, la riconoscenza, la forza dei sentimenti? Balle, balle stratosferiche, ripetevo spesso a quelli che sostenevano il contrario. Ma erano davvero in pochi a dirlo, non mi costava un granché far prevalere la mia opinione.

Forse perché non mi sentivo del tutto a posto con la coscienza un giorno presi la decisione di dedicare qualche ora al giorno ai malati terminali: quando mio padre era ricoverato in ospedale, ero andato a fargli visita due o tre volte in tutto. Me ne stavo seduto su una scomoda sedia, buttavo là qualche frase di circostanza, e una mezz’oretta dopo me ne andavo sollevato.

La psicologa della Fondazione che mi aveva esaminato sentenziò che, tutto sommato, avevo le carte in regola per fare il volontario. Non ero un delinquente, un gonzo, uno scapestrato, anche se il rischio che avevo corso di finire su una cattiva strada o in psicoterapia, statistiche alla mano, disse, era stato davvero elevato. Come quasi tutti i malati di cancro, anch’io avevo avuto sfortuna nella vita. Inoltre, in quel periodo, loro erano a corto di volontari.

Ancora oggi entro nelle case dei malati con un sorriso genere still life sulle labbra e, in fondo al braccio, presidi sanitari e sacche nutrizionali. Non mi trattengo che pochissimi minuti. Entro, saluto, depongo le cose che devo consegnare e me ne vado. Ma a volte capita che una moglie, un marito, un figlio, una nuora, la fonte corrugata, lo sguardo assente, mi parli del malato o di come la vita sia crudele; altre volte che la sagoma di un uomo o di una donna mi si rivolga da sotto le lenzuola come si rivolgerebbe a un figlio, a un nipote o a un fratello e, con occhi velati e acquosi, mi domandi un po’ del mio tempo perché ha qualcosa da raccontarmi e domani potrebbe essere troppo tardi. Mentre ascolto la sua storia, labbra dure e pallide si allargano a dismisura, gli occhi si accendono come luminarie, da tutti gli angoli del viso germogliano bouquets di emozioni, le piaghe si ricuciono, le ferite si rimarginano.

Quando il giorno dopo bussai di nuovo a quella porta, mi tremavano le gambe. Il capolavoro, il tenerissimo frammento di vita reale che avevo intravisto con la coda dell’occhio il giorno prima mi aveva letteralmente sconvolto ed esaltato allo stesso tempo, aveva fatto traballare certezze che fino a un momento prima avevo creduto a dir poco granitiche. Mentre lasciavo cadere le sacche nutrizionali sul divano della sala da pranzo, mentre stavo dicendo alla padrona di casa qualcosa che lei, mugolando tra sé sottovoce, sembrava non voler comprendere, con la coda dell’occhio potei di nuovo catturare questa straordinaria, sbalorditiva istantanea…

Una stanza. Perduti nella penombra gli angoli e gli arredi. Tendaggi color febbre alla finestra, gonfi e sfatti. Un letto. Come una culla il letto. Un giardino d’infanzia la culla. Nella culla due corpi distesi, abbandonati sulla coperta. Verde perla la coperta. Come pietrificati i corpi. Di una bambina e di un uomo i corpi pietrificati. Occhi che si toccano. Sguardi che si penetrano. Pupille che si baciano. Del colore dei limoni acerbi le pupille. Dolce angolosità dei tratti dei volti. Come laghi prosciugati la fronte e le guance dell’uomo. Un che di biondo di lei (petali?) sul petto di lui. Spore di un sole ribelle i petali biondi. Lo stelo di un giglio (un braccio?) intorno al collo dell’uomo. La mano abbandonata sul cuscino. Dita sottili e morbide fluttuanti dentro solchi raggrinziti e devastati. Lattiginoso e pallido il cuscino. Con un cancro al cervello l’uomo, un cancro rigido e freddo, in chiaroscuro.

Fui travolto da un’ondata di stupore. Quello che il giorno prima desideravo fortemente potesse accadere di nuovo, si era verificato. Sentii la mia anima cantare, fermentare dalla gioia, fremere dall’entusiasmo. Repressi un grido. Mi precipitai a bocca aperta nella stanza, mi sedetti sulla sponda della culla, dilatai gli occhi verso quella meravigliosa composizione, felice che fosse reale. Poi con entrambe le mani mi afferrai la testa e scoppiai in un pianto dirotto. Lacrime infantili m’inondarono il viso, serrandomi la gola e il petto. In tutta la mia precedente vita non avevo mai visto nulla del genere. La natura viva che avevo davanti, sfuocata e asfissiante come l’aria malata della stanza, non si scompose, non si mosse, non si ritrasse tanto era perfetta.

Sentendomi piangere, la padrona di casa entrò silenziosa nella stanza. Si chinò a guardarmi, si frugò nella tasca della vestaglia, mi asciugò le lacrime con un fazzoletto, mi aiutò ad alzarmi, mi condusse per mano in salotto e mi fece sedere in una poltrona. Non mi fece domande, si limitò a mettermi in mano il bicchiere d’acqua che vuotai tutto d’un fiato, si sincerò che stessi bene, che fossi nelle condizioni di reggermi in piedi e, ricevute rassicurazioni da parte mia, mi accompagnò all’ascensore. Quando, sul pianerottolo, mi prese fra le braccia, gli occhi mi si riempirono di nuovo di lacrime.

Il mattino seguente, la segretaria della Fondazione mi chiamò al telefono. Mi disse che il paziente con il tumore al cervello era deceduto nella notte.

Erano le tre, tre e mezza del pomeriggio di un giorno di metà luglio. Stavo camminando lungo la battigia quando da sotto un ombrellone in quarta o quinta fila venne una voce di donna che gridava il mio nome. Istintivamente mi girai e guardai da quella parte così da poter distinguere la figura femminile che l’aveva pronunciato, senza riuscire, tuttavia, a mano a mano che avanzavo tra gli ombrelloni, a dare ancora una precisa identità al costume rosa e nero che ora mi stava facendo segno con ampi gesti della mano di avvicinarmi.

«Buongiorno. Mi riconosce?» disse quando le fui vicino.

«Buongiorno, dovrei?» dissi io con aria interrogativa.

Era una donna di circa trentacinque anni, alta e magra, con un viso dolce e sottile, occhi chiari, capelli neri corti, l’espressione intelligente.

«Mi chiamo Laura Rossi… ci siamo visti un anno fa a casa mia, un paio di volte… lei era quello che portava pranzo e cena a mio padre…»

La osservai meglio. Sì, i lineamenti erano proprio quelli, non c’erano dubbi, era la donna con i capelli arruffati, in vestaglia e senza pantofole, che l’anno prima, un mattino, mi aveva preso per mano, mi aveva asciugato le lacrime, mi aveva dato un bicchiere d’acqua zuccherata prima che collassassi davanti alla più grande ed eccelsa opera d’arte che mai pittore, scultore, poeta o fotografo avesse mai realizzato.

Sulle mie labbra si disegnò un sorriso di gratitudine. Spalancai gli occhi con una sensazione vivissima d’intima serenità: rividi la stanza, la culla, la sottile striscia di luce sull’orlo del cuscino, la mano nella mano, i biondi petali scomposti della bambina sul petto dell’uomo, i riflessi verde acqua dei suoi occhi in quelli spauriti e malinconici di lei. Di ogni particolare di quella scena quasi surreale aspirai il penetrante e propizio profumo, la celeste fragranza, il dolce fremito, il grandioso silenzio. Mi si fermò il respiro.

«C’è qualcosa che non va?» domandò lei in tono preoccupato.

«Tutto a posto» dissi io. «Un lieve capogiro… mi capita spesso ultimamente…» Raddrizzai le spalle e le porsi la mano.

«Lei come sta? Sta bene?» chiesi.

«Non c’è male. E lei che mi racconta, invece? Come procedono i suoi studi?»

«Ho dato sei esami quest’anno, non sono mica pochi sei esami… ho recuperato il tempo perduto…» Mi sentivo in imbarazzo. Cambiai discorso. «Come sta sua figlia?» domandai.

«Bene… ha finito la prima elementare quest’anno.»

«Tutti nove o dieci in pagella, immagino…»

«No, nessun nove, solo dieci!»

«Caspita, complimenti!» esclamai. “Ne sarà orgogliosa…»

«Orgogliosissima… anche la maestra dice che ne devo andare fiera, di Martina.» disse lei in tono compiaciuto. «Sa, signora Rossi» mi ha detto una volta «se tutti i bambini fossero come sua figlia, la scuola sarebbe un paradiso… ce ne sono certi che sono dei veri demoni…»

Annuii.

«Dov’è ora Martina?» domandai.

«È in acqua con suo padre… su quel materassino di gomma color fragola» fece lei, curvandosi e indicandomi con un braccio un punto preciso.

Guardai in quella direzione. Dove l’acqua arrivava sì e no a mezzo metro, una bambina di sei o sette anni in un costumino da bagno rosa antico, sdraiata a pancia in giù, i riccioli biondi che sbucavano dai bordi di una cuffietta azzurro cielo, se ne stava buona buona su un materassino rosso che qualcuno stava spingendo al largo.

«Sa» continuò «l’anno scorso, non c’è stato verso di farle prendere un giorno di sole. Io e mio marito ci abbiamo provato, ma non c’è stato nulla da fare… era irremovibile, al mare non ci voleva venire…»

Mi girai verso di lei.

«Come mai?» dissi dopo una pausa.

Lei mi guardò e disse:

«Mio padre e mia figlia erano una sola cosa… per Martina, nonno Gianni era tutto il suo mondo… Stefano, mio marito, era spesso fuori per lavoro, a volte stava via intere settimane, io avevo i miei turni al Pronto Soccorso… può immaginare… prima che il cancro lo riducesse a un vegetale, mio padre non viveva che per Martina… le aveva insegnato a leggere e scrivere, le aveva insegnato ad andare in bicicletta, facevano lunghi giri intorno a casa il pomeriggio, le leggeva le più belle fiabe e favole, sa quelle che oggi non si leggono praticamente più, guardavano insieme la televisione… soprattutto documentari sugli animali, sulle bellezze degli oceani, sulle foreste, gli uomini preistorici, le piante e i vegetali…» Qui si fermò di colpo, gli occhi umidi e tristi. Girò lo sguardo altrove. Si tolse un po’ di sabbia dalla spalla destra, poi tornò a guardarmi e riprese:

«Dal giorno in cui intuì che per mio padre non c’era più niente da fare, Martina si svegliava che era ancora buio, entrava nella camera del nonno, saliva sul suo letto, gli metteva un braccio intorno al collo, posava la faccina sul suo petto e lo guardava come rapita. Si guardavano in silenzio. Si parlavano con gli occhi, loro due. Lei rimaneva in quella posizione fino all’ora di pranzo. Il pomeriggio era la stessa storia. Io non osavo dirle niente, non osavo fare niente. La prima volta che provai a prenderla tra le braccia, ad allontanarla da mio padre, Martina, gli occhi velati dalle lacrime, lo sguardo supplichevole, la voce incrinata, mi disse:

“Mamma, perché mi fai questo?”

Lei, ragazzo mio, ha assistito di persona a quella che, a raccontarla in giro, sembra una storia uscita dal libro “Cuore” … dalla fantasia di uno scrittore sin troppo sentimentale…»

Assentii. Restammo ancora un po’ a chiacchierare. Lei mi parlò di com’era suo padre, di come probabilmente aveva contratto il cancro, il granchio, come lo chiamava Martina, di quello che avevano detto i medici, di quella lunga notte in cui se n’era andato.

Ci stringemmo la mano, ci augurammo buona fortuna e mi allontanai.

Mentre mi rivestivo guardai ancora una volta in direzione del materassino, ormai un puntino rosso in mezzo al mare. Scesi in acqua vestito, soffocando a stento i singhiozzi. Chiusi gli occhi per una frazione di secondo o due. Rividi come in sogno il meraviglioso quadro, tremendo e indimenticabile, che mi aveva cambiato la vita, me l’aveva fatta amare, mi aveva fatto amare gli uomini, i loro difetti e i loro travagli quotidiani. E per la prima volta, di fronte a quel puntino luminoso che si perdeva lontano tra le onde, ebbi la certezza che non ci può essere esperienza più bella di quella che l’Amore ci chiede di vivere.

Una vita all’insegna dell’indifferenza, di rapporti familiari inesistenti, di soprusi abietti hanno indurito il cuore del protagonista. Ma il miracolo accade: la visione di un nonno moribondo per il cancro teneramente abbracciato alla sua piccola nipotina porta il giovane a riconciliarsi con la vita e ad accettarne, pur tra lacrime di commozione, la dura e triste realtà. Interessante ed avvincente lo svolgimento narratologico.

                                                        ph Eleonora Mello